Biografia di Lea Melandri

Figura tra le più significative e autorevoli del femminismo italiano, autrice di testi teorici fondamentali come L’infamia originaria, Lea Melandri aggiunge al suo complesso profilo intellettuale una grande simpatia, una bellissima voce da mondina (di cui conosce l’intero repertorio), una testa di capelli rossi e ribelli che insieme agli occhi di un azzurro profondo fanno di lei una donna molto bella.


Lea (Maddalena) nasce a Fusignano, paese della campagna romagnola, in una famiglia di mezzadri, allargata, come usava allora, a zii, nonni e cugini che condividevano, in povertà, poche stanze di una cascina senza servizi igienici e senza riscaldamento.

Figlia unica, Lea mostra molto presto una spiccata personalità e una notevole intelligenza che le consentono un percorso scolastico piuttosto eccezionale per la sua provenienza.
Grazie ai sacrifici dei genitori, frequenta infatti il Liceo Classico di Lugo pedalando ogni giorno per gli otto chilometri del tragitto tra casa e scuola, un’esperienza che porterà per sempre nella memoria. Conseguita la maturità col massimo dei voti, vince nientemeno che il concorso per la Scuola Normale di Pisa, università di eccellenza che ha formato buona parte della classe dirigente e del ceto intellettuale italiano del dopoguerra. Ma, superato il biennio, decide che la Normale non fa per lei. Torna al paese e inizia a insegnare come supplente nello stesso Liceo dal quale era appena uscita, sostituendo il suo ex professore di filosofia, Ernesto Maggioni, un pensatore di particolare finezza intellettuale e morale, destinato a lasciare un segno profondo e duraturo nella sua formazione. Si laurea poi in Lettere e Filosofia all’Università di Bologna con una tesi di storia moderna, ma la sua vera passione è la letteratura, in particolare la poetica del Pascoli. Una passione, quella letteraria, cui darà ampio spazio anni dopo con una fondamentale rilettura della figura e dell’opera di Sibilla Aleramo contenuta nel libro Come nasce il sogno d’amore

Inizia nel 1966 la sua carriera di insegnate di ruolo al Liceo Scientifico, e tutto sembra avviarsi verso una tranquilla routine, quando con un colpo di scena degno della protagonista di un romanzo, fugge improvvisamente a Milano lasciando tutto alle spalle: la famiglia, il lavoro, il paese ma soprattutto un matrimonio forzato che verrà annullato solo molti anni dopo. A dispetto delle conseguenze dolorose che agiteranno per anni i rapporti con la sua famiglia d’origine, questa scelta di libertà risulta davvero determinante per gli sviluppi futuri della sua vita. Di lì a poco scoppia il ’68 e dalla scuola media di Melegnano dove insegna, Lea scopre quasi per caso le assemblee del movimento non autoritario degli insegnanti, cui darà subito un’adesione appassionata. Nello stesso milieu politico e culturale avviene poi l’incontro con Elvio Fachinelli, psicoanalista e leader della pratica non autoritaria nella scuola, determinante per la sua vita e il suo impegno politico. Insieme fondano la rivista "L’erba voglio" (1971-1977), una pubblicazione che avrà grande impatto sul mondo della scuola italiana. Negli stessi anni Lea comincia a far parte dei gruppi femministi milanesi, cercando di mantenere una relazione tra l’una e l’altra esperienza.

Della partecipazione al movimento non autoritario nella scuola e al movimento delle donne sono testimonianza gli scritti che escono sulla rivista e che verranno poi in gran parte raccolti nel suo primo libro, L’infamia originaria (tradotto in francese e spagnolo) un vero manifesto del femminismo italiano. Gli anni Settanta e il grande cambiamento personale e collettivo che hanno determinato nella sua vita e in quella di tante altre resta tuttavia un tema ricorrente nel suo lavoro teorico e pratico.
Altra esperienza cruciale l’insegnamento ai corsi 150 ore voluti dal sindacato per favorire la formazione dei lavoratori e delle lavoratrici, ma anche di chi non aveva potuto conseguire la licenza media. Nel quartiere milanese Affori Bovisasca si trova a insegnare al primo gruppo di donne, prevalentemente casalinghe, che avevano deciso di tornare a scuola soprattutto per il desiderio di uscire dallo spazio ristretto delle loro case. Questo felice incontro permette a Lea di ritrovare figure familiari, storie di donne simili a quelle della sua infanzia al paese e di ripensare le teorie del femminismo sulla base dei loro vissuti concreti. Tutto ciò avrà un seguito molto importante per la storia del movimento delle donne di Milano, costituendo il primo esempio di una “scuola delle donne” che presto sarà imitato da altre in molte differenti esperienze: corsi monografici, bienni sperimentali, cooperative, fino alla nascita nel 1987 dell’Associazione per una Libera Università delle donne di Milano.

Nel 1975, a seguito di un incontro con femministe all’Università di Cagliari, scopre Carloforte, dove si terrà nell’estate dello stesso anno la prima vacanza femminista in Italia, e dove Lea tornerà da allora ogni anno; così, come premio alla sua fedeltà, nel 2009, le viene conferita la cittadinanza onoraria.

Nel 1986, Lea lascia definitivamente l’insegnamento per dedicarsi interamente al suo impegno nel movimento delle donne e ai suoi studi. Scelta che le permetterà un impegno non comune nelle associazioni del femminismo e la possibilità di destinare più tempo alla scrittura, ma che le costerà uno stato permanente di precarietà economica. Molte sono in questi anni le attività di Lea Melandri nel femminismo: dai gruppi di autocoscienza ai gruppi di pratica dell’inconscio, al gruppo “sessualità e scrittura”, per arrivare alla creazione e direzione della rivista «Lapis. Percorsi della riflessione femminile» (1987-1997).

Una volta rimarginate le ferite di antiche incomprensioni, i vecchi genitori, una coppia di imbattibili ballerini di liscio, continueranno pur da lontano a sostenere le sue scelte, affettivamente e materialmente; questa vicinanza contribuirà a mantenere saldo e profondo il legame con la sua terra d’origine.

Nel 1999 muore il padre e comincia per Lea un doloroso andirivieni tra Milano e la Romagna dove vive la madre, ormai bisognosa di cure e assistenza. Delle ansie e della fatica del lavoro di cura che segnano gli ultimi anni di vita della madre, vissuti in solitudine e con scarsi mezzi economici per l’assistenza necessaria, scriverà nel libro La perdita pubblicato nel 2006.

Impossibile contare le collaborazioni occasionali a quotidiani e riviste da «Carnet» a «Liberazione», a «Gli Altri» così come le conferenze e i seminari a cui partecipa in varie città d’Italia. Oggi è presidente della Libera Università delle Donne di Milano.
Quella che definisce “scrittura di esperienza” interroga innanzi tutto il pensiero, il suo radicamento nella memoria del corpo, nelle sedimentazioni profonde che hanno dato forma inconsapevolmente al nostro sentire. In quelle zone remote e “innominabili”, la storia particolarissima di ogni individuo incontra comportamenti umani che sembrano eterni, immodificabili, uguali sotto ogni cielo. Tra queste, vanno a collocarsi le figure del maschile e del femminile, che il corso della storia ha modificato, ma non tanto da cancellare i tratti della vicenda originaria che ha dato loro volti innegabilmente duraturi.
A differenza dell’autobiografia, che lavora sui ricordi, sulla loro messa in forma all’interno di una narrazione, la scrittura che vuole spingersi “ai confini del corpo”, in prossimità delle zone più nascoste alla coscienza, si affida a frammenti, schegge di pensiero, emozioni, che compaiono proprio quando si opera una dispersione del senso. Si tratta di far luce su un terreno di esperienza che resta generalmente confinato in una “naturalità” astorica.

È quello che Franco Rella chiama l’ “impresentabile della vita” (F.Rella, Dall’esilio, Feltrinelli 2004), e che potremmo anche chiamare le “viscere della storia”, di cui si vedono oggi i riflessi deformati, banalizzati, nell’industria dello spettacolo, nella pubblicità, nel populismo, nel razzismo, ma su cui sembra difficile produrre cultura e cambiamenti. Questa scrittura non è, come qualcuno potrebbe pensare, un “genere”, nonostante l’evidente parentela con la diaristica, le lettere, l’autobiografia. Non prevede tecniche né codici particolari. Nel medesimo tempo, si può dire che attraversa tutti i “generi”, producendo dislocazioni, modificazioni del linguaggio, nuove costellazioni di senso.


Gli “antecedenti” di quella che appare, prima ancora che una scrittura, una disposizione del pensiero, appartengono per un verso alla sua storia personale, e per l’altro, alla storia dei movimenti degli anni Settanta: il movimento antiautoritario nella scuola, la rivista "L’erba voglio" (1971-1977), e il femminismo. «Dal corso di studi liceali e dall’università sono uscita con la consapevolezza che gran parte della mia vita fosse rimasta fuori dalle aule scolastiche, o “fuori tema”, come venivano a volte giudicati i miei scritti, ritenuti, per altro invece formalmente lodevoli. L’incontro, a Milano, dopo la fuga dalla provincia e proprio quando mi accingevo ad assumere il “ruolo” di insegnante, con la “pratica non autoritaria” e col movimento delle donne, è stata una specie di rivoluzione copernicana: corpo, sessualità, relazioni parentali, vita affettiva, considerati materia “intima”, privata, e come tale estranea ai saperi, ai linguaggi colti, così come alle grandi questioni della politica, acquistavano un’inedita cittadinanza e legittimità. Il “fuori tema” diventava il tema.» L’esperienza più “impresentabile”, dissepolta e restituita alla parola, allo sguardo di una collettività attenta, veniva a occupare un posto di primo piano in quella “narrazione di sé” che è stata l’“autocoscienza”, pratica politica anomala, originale, del femminismo: un “fare e disfare”, una rilettura della storia personale fatta di andirivieni, sogno e lucidità di analisi, sostenuta o contraddetta dall’attenzione di altre donne, un guardare e essere guardate nei risvolti più profondi, spesso inconsapevoli, di una “rappresentazione del mondo aprioristicamente ammessa” (Sibilla Aleramo). Era un narrarsi particolarissimo, affidato prima alla parola e solo in un secondo tempo, quando ci si rese conto dei mascheramenti che essa opera e dei non-detti che contiene, alla scrittura: una costruzione che si può guardare alle spalle, negli anfratti, capace di accogliere la solitudine del singolo, il chiuso di una stanza, ma anche la relazione con gli altri e col mondo, il narrare e il riflettere.


All’inizio degli anni Ottanta, il campo di osservazione si allarga e si approfondisce, in coincidenza con una lunga analisi. «Vengo colta con mia sorpresa da una scrittura per me insolita, fatta di frasi brevi, frammenti segnati da un sottofondo emotivo, legato a vicende della vita personale. Sono dello stesso periodo, forse non a caso, la scoperta di Sibilla Aleramo, le rubriche di posta del cuore e di scritture del privato sul settimanale "Ragazza In" (1981-1983) e su "Noi donne" (1990-1993). Un rilievo particolare assumono anche le scritture che nascono all’interno dei corsi delle donne, emanazione dei corsi 150 ore, in cui già insegnavo dal 1976. È il momento in cui mi si fa più evidente la parentela tra scritture considerate di scarto – lettere, diari, note sparse – e scritture colte, tra il sentimentalismo attribuito alle donne e uno dei miti più duraturi del pensiero maschile: l’ideale androgino, la “mente creativa” di cui parla virginia Woolf in Una stanza tutta per sé.»


«Mi sembra importante dire che tutte queste scritture – dall’Aleramo a Michelstaedter, Nietszche, Freud, che compaiono nel mio libro Come nasce il sogno d’amore – non sono state trattate come materiale di studio. Le ho accostate con un procedimento che chiamerei di riscrittura: pedinare il testo, ricalcarlo, lasciarsi sedurre dalle parole dell’altro, fondersi o confondersi con esso, e poi scostarsi quel tanto che permette di poterlo mostrare, decantare, scoprirne il senso nascosto, il non-detto». Con un movimento opposto a quello dell’autobiografia, preoccupata di comporre la frammentarietà in un tutto omogeneo, la rilettura/riscrittura cerca nella dispersione del senso la strada per avvicinarsi a una percezione più reale di sé. Il femminismo degli anni Settanta con la pratica collettiva del “narrarsi”, è come se avesse frantumato lo specchio in cui qualcuna aveva sperato di vedersi a tutto tondo. Per la costruzione di un sé più autonomo da modelli interiorizzati era necessario lo sguardo di altre donne, la disponibilità a interrogare la trama profonda del proprio essere, a riconoscere i molti volti e voci che ci abitano. È come se fosse necessario “forare” incrostazioni di superficie, mettere in atto quella che Asor Rosa chiama una “mineralogia del pensiero”, costruire canali sotterranei, riallacciare percorsi nascosti, “imparare un’altra lingua”. Questa è, per certi aspetti, la finalità di una “scrittura di esperienza”: imparare la lingua ibrida del mondo interno, sfatarlo dei suoi miti, scoraggiarne il silenzio, riconoscere i “tesori di cultura” che nasconde, dare un nome alle “cose che non siamo stati ancora capaci di nominare”. E sono ancora tante.


Biografia a cura di Annamaria Tagliavini, pubblicata su http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/lea-melandri/

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